Soffre il comparto della soia italiana. Il prezzo della proteoleaginosa è in forte flessione: a ottobre ha raggiunto 433 euro a tonnellata, il secondo valore più basso da aprile 2022, con una diminuzione del 37% e una perdita di 257 euro a tonnellata.
Oltre ai prezzi bassi, altri fattori preoccupano le aziende agricole, come le condizioni climatiche avverse, le incertezze geopolitiche e l’aumento dei costi di produzione. “Tutti elementi – spiega Deborah Piovan, presidente della Federazione di prodotto Proteoleaginose di Confagricoltura – che contribuiscono a rendere il mercato sofferente per gli agricoltori. Come Confederazione siamo attenti anche alle dinamiche di formazione del prezzo del prodotto, che potrebbe trarre giovamento da una pluralità di sbocco più ampia, visto anche che le importazioni sono cresciute e frenano il nostro comparto”.
Nonostante lo sforzo delle imprese italiane di aumentare gli attuali 303mila ettari coltivati (erano 176mila nel 2006), l’import è infatti aumentato considerevolmente, raggiungendo 2,3 milioni di quintali nel 2023 (erano 1,5 milioni nel 2006), con una percentuale di autoapprovvigionamento pari al 32%.
L’Italia è il primo produttore europeo di soia e uno dei principali al mondo, dove la leadership è del Brasile, seguito da Stati Uniti, Argentina, India e Cina. Nell’area continentale europea i principali Paesi coltivatori di soia, dopo l’Italia, sono la Serbia con 219mila ettari, la Romania con 155mila, la Francia con 154mila. (fonte: Eurostat)
La soia è uno dei principali prodotti agricoli a livello globale, ingrediente fondamentale in ambito zootecnico, fonte di proteine vegetali tra le più ricche e complete disponibili. Questo la rende un alimento ideale per diverse specie animali, in particolare per il pollame, i suini e i bovini. Nel nostro Paese è di vitale importanza per l’alimentazione zootecnica per la produzione di latte destinato alla trasformazione casearia, e di carne, anche per la preparazione di salumi.
La soia offre anche un profilo nutrizionale equilibrato, ricco di aminoacidi essenziali, vitamine e minerali, nutrienti cruciali per la salute e il benessere degli animali. “Per questo – conclude Piovan – è necessario difendere e rafforzare la nostra produzione. Il comparto non può essere lasciato solo”.
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Se con la fine del lockdown le quotazioni dei suini all’ingrosso hanno invertito la tendenza dei mesi precedenti, che aveva portato i prezzi a minimi storici, tuttavia le variazioni positive sono troppo contenute e ben lontane dal condurre il settore alla soglia di una reale ripresa. I prezzi a cui gli allevatori si trovano costretti a vendere i capi sono ancora al di sotto dei costi di produzione.
Qualche segnale di ripresa c’è, ma il prezzo di vendita è ancora inferiore al costo di produzione. Durante il periodo del lockdown le quotazioni sono scese di 5 centesimi alla settimana, che è il massimo consentito. Ora risalgono di appena qualche centesimo alla settimana, se va bene, nonostante la richiesta di prodotto da parte del mercato sia buona. Con l’attuale livello della domanda sarebbero giustificati aumenti decisamente superiori, ma all’interno della filiera c’è chi tende a limitarli. Teniamo conto che eravamo arrivati anche a 1 €/kg e di questo passo, per tornare ad un prezzo dignitoso, ci vorrà troppo tempo.
Che si registrino oscillazioni nelle quotazioni è qualcosa di fisiologico, che può succedere e che mettiamo in conto, ma la situazione di questo 2020 è altra cosa, sottolinea Confagricoltura. Con gli attuali rialzi, se tutto va bene, arriveremo a pareggiare i conti a settembre. E teniamo anche conto che quest’anno non ci saranno eventi, fiere e sagre, di solito occasioni favorevoli per il consumo di carne suina, così come il turismo è fortemente ridotto. Se le nostre aziende vogliono avere qualche chance di sopravvivenza, devono cominciare al più presto a guadagnare qualcosa, ma ad oggi lo scenario non è favorevole.
La situazione ripetutamente denunciata da Confagricoltura si ripercuote pesantemente ormai da mesi sulle attività del territorio che si trovano a fare i conti anche con il continuo aumento della carne importata. Continua ad arrivare molta, troppa, carne dall’estero. Rispetto a questo tipo di concorrenza, speriamo che con l’etichettatura, che permette di riconoscere con certezza il capo nato, allevato e macellato in Italia, il prodotto nazionale venga maggiormente premiato dal consumatore e serva a limitare il consumo di carne importate il più possibile.
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